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Lo studio della percezione della cultura artistica della città di Genova e delle sue emergenze monumentali, in particolar modo relative alle arti figurative, tocca da vicino la fortuna di mercato della produzione artistica locale tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, periodo che vede il collezionismo genovese in espansione. Così come rilevato da Maurizia Migliorini, in questo periodo le scelte dei mercanti, degli esperti, degli intermediari e dei sensali costituiscono una ricca rete di interessi, che si rivelano spesso esclusivamente commerciali e che giungono a condizionare la valutazione estetica dei prodotti artistici.  [1] La forte sollecitazione del mercato artistico, messa in evidenza da Francis Haskell  [2] e rivolta ai più vasti strati della popolazione, costringe i viaggiatori a misurarsi con una maggior referenziazione ed esibizione delle collezioni artistiche, sulle piazze, negli studi degli artisti e persino negli spazi religiosi (mostre di quadri come quella di S. Salvatore in Lauro a Roma,  [3] palazzi privati aperti al pubblico), ma ciò non trova, comunque, una conferma fattiva nei resoconti dei viaggiatori. In questo contesto il configurarsi di Genova come approdo e luogo di passaggio per mete assai più note (Roma, Firenze, Napoli) e la presenza nella città delle architetture alessiane tardo rinascimentali e alcune collezioni artistiche di rilievo (i palazzi di Strada Balbi, Strada Nuova, la collezione Durazzo) presero ad attirare visitatori da tutta Europa, in un flusso che, a partire già dal XVI secolo, non aveva conosciuto grandi interruzioni nonostante i rischi del viaggio per mare e la crescente insicurezza dei percorsi che travalicavano le Alpi. Si era, pertanto, fatta strada l'idea della città dei palazzi, da visitare, conoscere e tramandare.

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Proprio in questa condizione nascono, ad uso dei visitatori, elenchi di siti notevoli per la presenza di opere e memorie sacre. Dai semplici elenchi delle emergenze artistiche più importanti, come i Saggi cronologici,  [4] si passa via via a veri e propri prontuari tematici, compilati da cultori locali quali Raffaele Soprani o Carlo Giuseppe Ratti,  [5] che guidano gli amanti della materia artistica da un luogo all'altro di Genova secondo un percorso preferenziale che si dipana fra i pochi grandi nomi della cultura artistica europea ed esponenti della cultura artistica locale. Si tratta di testi compilati per il cittadino ma presto trasferiti fuori città,  [6] trascritti e tramandati per la conoscenza dei numerosi forestieri, che però non sembrano rilevare grande interesse all’estero per la produzione artistica locale. Nel XVIII secolo la conoscenza di Carlo Giuseppe Ratti, in ambito anglosassone, quale esperto cultore dell’arte genovese e ligure ha portato curiosamente ad attribuire al nostro, in molte biblioteche inglesi, fra cui spicca la British Library, anche i lavori del meno noto Cesare Ratti, compilatore di guide artistiche della Valle D’Aosta e del Piemonte.  [7] Il patrimonio locale, specialmente quello figurativo, non aveva ancora una sua identità artistica e territoriale fuori dalle mura cittadine, seppur Soprani avesse tentato di elaborare senza grande successo una prima identità artistica. Tale identità verrà codificata per la prima volta, più di un secolo dopo, da Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica  [8] grazie anche alle notizie fornite dal suo corrispondente locale Carlo Giuseppe Ratti.  [9] Lanzi identificherà finalmente una scuola genovese che aprirà la strada a vari e, ormai noti, studi di settore.

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L’attenzione dei visitatori fu dunque fino ad allora rivolta quasi unicamente ai grandi nomi legati al gusto coevo e al collezionismo europeo dell’epoca, e pertanto vale la pena puntualizzare la fortuna o sfortuna critica di alcuni specifici artisti emersi, sia pur episodicamente, da alcune relazioni di viaggiatori e di alcuni ricorrenti ›luoghi dell’arte‹ . I forestieri che visitano Genova sembrano in prima istanza impressionati da specifiche emergenze monumentali legate al gusto tardo rinascimentale e alla cultura artistica classicista. Infatti emerge prima fra tutti una spiccata attenzione nei confronti di Raffaello e della sua scuola a discapito della cultura naturalistica che non rende apprezzabile l’opera di Caravaggio e Orazio Gentileschi, pur presenti sul territorio. Contemporaneamente sembra evidenziarsi una scarsa puntualizzazione della tradizione artistica locale. L’attenzione rivolta a Raffaello e ai raffaelleschi da parte di Charles De Brosses a Genova nel 1739 e Edward Gibbon del 1764 è dedicata a una tela raffigurante una Madonna col figlio in collezione Durazzo-Pallavicini che, come osserva Giovanna Rotondi Terminiello,  [10] era stata segnalata per la prima volta come opera di Raffaello o sua copia solo nel 1780/81 nella Description de Beautés de Gênes,  [11] ma che in realtà Charles De Brosses aveva precedentemente segnalato nelle sue Lettres historiques et critiques sur l'Italie. L'Italie il y a cent ans, ou Lettres ecrites d'Italie à quelques amis en 1739-1740.  [12] L’interesse nei confronti del Sanzio è però rivolto soprattutto al Martirio di S. Stefano di Giulio Romano presso l’omonima chiesa, che la tradizione locale e forestiera voleva di Raffaello. Quest’opera, oltre ad essere oggetto di non poche discussioni di carattere attribuzionistico,  [13] fu particolarmente indicativa del gusto coevo. Tale interesse nei confronti di Raffaello, tipico di questo periodo e dettato perlopiù da un coinvolgimento del mercato artistico e antiquario, è legato, in parte, anche alla fortuna suscitata dal rinnovamento della cultura artistica genovese, sviluppatosi grazie alla presenza di pittori manieristi allievi di Raffaello.  [14]

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È certo che Genova fu un centro nevralgico della cultura manierista internazionale  [15] con la presenza di Perin del Vaga, del senese Domenico Beccafumi e di Giovanni Antonio de' Sacchis detto il Pordenone.  [16] Ma se Perin del Vaga viene ricordato, seppur sporadicamente, da qualche viaggiatore, il Beccafumi e il Pordenone vengono esclusi da qualsiasi relazione, pur essendo comprimari nella decorazione di Palazzo Doria. Non a caso, come riferisce Balthasar De Monconys a Genova nel 1655,  [17] il palazzo risulta impreziosito da splendidi affreschi interni che però risultano essere opera del solo Perino. Il Palazzo del Principe Andrea Doria diviene comunque luogo cardine della visita alla città. Se esso viene percepito quale margine che separa sostanzialmente il centro dalla periferia, tale rilevanza non corrisponde di fatto all’interesse che i viaggiatori rivolgono alla decorazione pittorica che lo caratterizza e lo ha reso celebre. Infatti l’attenzione si sposta più facilmente sul giardino e sulla statua del Nettuno, la cui fortuna varierà sostanzialmente nel corso dei due secoli presi in considerazione. Nel XVII secolo, in particolare i visitatori francesi definiranno il palazzo »le plus superbe«  [18] focalizzando l’attenzione, come puntualizzato anche da Agucchi,  [19] sull’arredo lussuoso, il vasellame d’argento, sulla ricca quantità di tavole cesellate in bassorilievo e sull’osannato gruppo scultoreo del Nettuno, effige simbolica di Andrea Doria. La decorazione pittorica passa dunque in secondo piano, e la produzione artistica genovese diviene una sorta di simbolo di un nuovo e importante potere politico.

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A solo un secolo di distanza però, il giudizio sul palazzo e il giardino cambia radicalmente. Nel 1773 infatti, l’aristocratico francese e cultore d’arte Pierre-Jacques Bergeret, a Genova per accompagnare Fragonard,  [20] ammette che, pur essendo una città di palazzi che hanno »la presunzione di offrire all’occhio ogni specie di sogno architettonico«, il tanto celebrato Palazzo Doria appare trascurato e il suo giardino incolto, con »in mezzo un Nettuno in marmo di ben mediocre fattura, trascinato da cavalli ancor più mediocri«.  [21] Si manifesta così un sostanziale cambiamento di gusto rispetto ai viaggiatori secenteschi, ma soprattutto si evidenzia un drastico mutamento relativo alla funzione dell’arte, non più simbolo di ricchezza economica, ma esposta a un vero e proprio giudizio critico artistico. Il viaggiatore anglosassone come quello d’Oltralpe risulta, in generale, affascinato dall’edificio e dal giardino che appaiono »di una magnificenza principesca«.  [22] Il visitatore, infatti, non degna di attenzioni la decorazione ad affresco, ma si concentra sul giardino e ancor più sulla sua esotica voliera.  [23]

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Proprio la voliera, rimossa da tempo poiché la zona venne alienata per la costruzione della ferrovia, è oggetto delle descrizioni di tre viaggiatori inglesi del Seicento: Francis Mortoft, a Genova nel 1658, John Evelyn nel 1644 e Richard Lassels nel 1648. Mortoft la descrive come »fatta costruire dal vecchio Principe di cui non si troverà pari in tutta Europa, poiché occupa tutta la lunghezza del giardino, costruita in fil di ferro, con una gran quantità d’alberi che le crescono dentro, dove fagiani e pernici [...] vivono non come in una gabbia ma come se si trattasse di un campo«.  [24] Evelyn è più attento agli aspetti più squisitamente artistici e infatti riferisce: »è sostenuta da possenti ferri battuti stupendi per arte e costruzione«, evidenziando una grande attenzione alle arti applicate. Lassels è il più polemico e, anticipando curiosamente un interesse ambientalistico, afferma: »la gabbia stessa ha messo in prigione il bosco«.  [25] In generale, la magnificenza del palazzo e del giardino sarà sottolineata da quasi tutti i viaggiatori stranieri, divenendo meta prediletta del percorso cittadino, che escluderà l’attenzione dalle emergenze decorative del palazzo.  [26]

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Questo atteggiamento evasivo nei confronti di alcuni grandi attori della decorazione manierista genovese non è isolato e tocca anche la presenza dei caravaggeschi a Genova, amati dagli artisti locali, ma non considerati dai forestieri. George Romney, ad esempio, a Genova nel 1773 per interesse professionale spinto dalla spasmodica ricerca di approfondire le sue sconoscenze storico artistiche, era stato uno dei visitatori più attenti alle collezioni artistiche genovesi, infatti è uno dei pochi a riferire della ricca collezione della famiglia Brignole Sale,  [27] sulla cui relazione si evidenziano curiose omissioni fra le quali spicca l’assoluta noncuranza rivolta a Rubens e ai pittori bolognesi presenti in collezione. Evidentemente la visita era stata veloce e approssimativa, infatti Romney aveva comunque segnalato, anche se senza particolare enfasi, di aver potuto osservare i due Rubens presenti presso la chiesa del Gesù. Molte sono le disattenzioni infatti nella sua visita a Palazzo Balbi Senarega; pur accennando alla decorazione, non si sofferma né sulla produzione locale ad affresco di Valerio Castello né sulla cerchia di Domenico Piola, né osserva la Conversione di S. Paolo, oggi nota come pala Odescalchi, che faceva parte della collezione di Francesco Maria Balbi già dal 1701. Anche Anne Claude Philippe de Caylus, a Genova nel 1713, non aveva notato l’opera e si era maggiormente concentrato nel descrivere »qualche bel Van Dick, un bel Bassano, un bel Guercino« denotando un forte interesse per la scuola veneta e la pittura di genere di Jacopo Bassano ed evidenziando un gusto comune a tutti i viaggiatori per la produzione di Van Dyck.  [28]

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La mancanza di attenzione nei confronti della pala Odescalchi può mettere sicuramente in luce uno scarso apprezzamento per il gusto naturalistico, ben presente invece a Genova nel primo Seicento con la produzione di Ansaldo e di Orazio de Ferrari e con un’episodica e mai verificata presenza del Merisi a Genova;  [29] anche se fu proprio un genovese trapiantato a Roma come Vincenzo Giustiniani a valorizzare laggiù la produzione del pittore. È noto che nella sua collezione romana egli avesse ben tredici opere di Caravaggio fra cui il Suonatore di liuto, l'Incredulità di San Tommaso, l’Incoronazione di spine, il San Gerolamo penitente e l'Amor vincitore, conservato coperto per non offuscare il resto della collezione con la sua bellezza.  [30]

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Ma se i mancati riferimenti alla pala Odescalchi possono comunque essere in qualche modo giustificati da un percorso molto privato, visto che il dipinto era collocato al secondo piano nobile del palazzo e visibile solo su invito dei proprietari, meno comprensibile appare l’oblio che circonda la bellissima pala dell’Annunciazione di Orazio Gentileschi, sempre assente nelle descrizioni della chiesa di S. Siro, tappa obbligata, ben presente e accessibile nel percorso cittadino. La chiesa, che conserva l’opera di Orazio Gentileschi e gli affreschi di Giovanni Battista Carlone, non viene apprezzata né per la presenza di Orazio né per la decorazione ad affresco ma viene ricordata con una sbrigativa analisi dell’apparato decorativo scultoreo accennando solo genericamente al pulpito  [31] e al sovrastante Crocifisso ai tempi riconosciuto nella guidistica locale come opera dello scultore,  [32] oggi invece solo attribuito. Infatti Charles De Brosses racconta sommariamente: »Tutte le pareti in tutte le chiese sono affrescate, ed in genere assai male affrescate, a parte le scene architettoniche. Fatta eccezione alla regola della Esaltazione della croce, dipinta sulla volta della chiesa di cui parlo da Carlone, e il pulpito, fatto di tasselli di marmo, si salva anch’esso dal cattivo gusto.«  [33] De Brosses si riferisce a Giovanni Battista Carlone ma dimentica o meglio non si cura di ricordare che oltre al Trionfo della Croce Carlone aveva dipinto, nella medesima chiesa, anche il Miracolo del basilisco, la Conversione di San Pietro, la Crocefissione di San Pietro e la Caduta di Simon Mago. Era stato invece, come di consueto, maggiormente colpito dai giardini:  [34] »Giardini dei padri teatini sono a forma di anfiteatro molto ripido; in cima, a prezzo di molta fatica, si può godere un bellissimo paesaggio.«

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Nessuno a esclusione dei cultori locali, se non nel XIX secolo, si sofferma o almeno elenca le principali opere ivi contenute fra cui, oltre al noto Gentileschi possiamo ricordare proprio gli affreschi delle volte opera di Giovanni Battista Carlone, oltre ad alcuni oli su tela e dipinti murari di Domenico Fiasella (Morte di Sant'Andrea Avellino coi due pendant Assalto dei demoni e Transito di Orazio De Ferrari), Domenico Piola (Gloria di San Gaetano), il rivestimento marmoreo della cappella della Pietà (completato nel 1606 dai marmorari Santino Paraca di Valsolda e Alessandro Ferrandino) di Taddeo Carlone e l'altare maggiore e il Crocifisso, opera di Pierre Puget. La disattenzione generale verso la produzione pittorica locale induce il visitatore a non osservare peraltro neppure l’opera del più noto scultore europeo Pierre Puget, che invece viene ricordato e apprezzato per il S. Sebastiano in Santa Maria di Carignano che, come ricorda Charles Dupaty, conferisce pregio alla struttura e la rende degna di sopralluogo. »Significa non comprendere l'architettura delle chiese, il farne, come avviene a Genova, dei saloni o dei teatri. Bisogna fare un'eccezione per la cattedrale che non manca di maestà e per la chiesa di Carignano, per merito della statua di S. Sebastiano, opera di Puget.«  [35]

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L’affermazione di Charles Dupaty ci permette di comprendere la persistenza di alcuni luoghi di interesse rispetto ad altri. Non vi è dubbio che tappe privilegiate del percorso cittadino ovvero nodi dell’itinerario fossero la cattedrale di S. Lorenzo,  [36] la Basilica di S. Maria di Carignano e, in ambito privato, la collezione Durazzo in Strada Balbi. Per quanto riguarda la cattedrale genovese e la sua fortuna, molto è stato riferito da Clario di Fabio, anche se non si è mai puntualizzato sul fatto che la Cattedrale fosse sempre stata visitata escludendo il suo contesto urbano.  [37] Il visitatore non si interessava di ampliare il raggio della perlustrazione e lasciava da parte altre e più interessanti emergenze monumentali antistanti, fra cui spicca la chiesa delle Scuole Pie,  [38] mai citata da alcun viaggiatore forestiero. La Cattedrale è luogo della celebrazione e della meditazione; non stupisce pertanto che vi si rechino due tipologie di visitatori: Coloro che devono assistere ad una cerimonia, rito o celebrazione ufficiale – ad esempio la visita di qualche sovrano europeo come quella dell’imperatrice Cristina Elisabetta di Spagna del 1713  [39] – e che descrivono più facilmente gli apparati effimeri e celebrativi, mentre i restanti vi si recano per meditazione e preghiera.

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Nella prima categoria rientra, spinto anche da una ritrovata fede cattolica, John Talman che nel suo Diarium Secretum rende, con grande efficacia, l'esperienza visiva di una ritualità corale che, in questo caso, focalizza l’attenzione sulle peculiarità della cerimonia:

»Last of all came the Doge in a red gown high wings to the shouders [...] & a ruff about his neck. He was followed by the magistrates & senators who were in the same habit only the colour was black. On each side of the Sacrament & Doge walk’d halbadeers, over the Sacrament was canoby born by 8 Cavaliers in black. The archBishop never attends at this ceremony, because he beyng alwayes a Cardinal will not give place to the Doge. The Doge during the Procession, which is very long, reposes at certain stations, & then the Procession pauses & musick plays; as the Sacrament passes, the inferiour people throw out of the windows vast quantities of sweet flowers. All the company had small tapers.«  [40]

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La seconda tipologia di visitatore, concentrato in preghiera, pur di fronte a immagini fortemente significative a livello artistico come il Crocifisso con Santi (Visione di San Sebastiano) di Barocci non ne riferisce nelle sue relazioni.  [41] Curiosa disattenzione che vede scomparire dal punto di vista dei viaggiatori anche le opere di Luca Cambiaso nella Cattedrale di San Lorenzo, in particolare gli affreschi nella volta della cappella di testa della navata sinistra, e dei suoi allievi, fra cui gli affreschi nelle volte del presbiterio e del coro opera di Lazzaro Tavarone. In un unico caso la visita alla Cattedrale è dettata da uno specifico interesse oggettuale. Molti viaggiatori la visitano per poter vedere la preziosa reliquia del Catino che assume agli occhi del visitatore una valenza sia artistica che storico-religiosa e coinvolge anche il pubblico anglosassone così poco interessato alla cultura cattolica. Se per la fortuna critica dell’oggetto si può fare riferimento ai noti contributi di Antonella Capitanio,  [42] qualcosa di più può essere detto sulla reliquia. Ogni visitatore è incuriosito dal fatto che il Catino fosse considerato, per tutto il XVIII secolo, ricavato da un pezzo unico di smeraldo. A questo si aggiunge un sicuro interesse legato ad una tradizione religiosa che trasformava la visita alle reliquie sacre in veri e propri momenti di espiazione e purificazione. In generale però, si può a buon diritto dire che la caratteristica che spinge ogni visitatore sia il desiderio di vedere più che di conoscere e che tutto questo abbia radici nelle ›curiositées‹ secentesche.

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Proprio in questo contesto si inseriscono le ampie descrizioni relative ai palazzi genovesi. Il viaggiatore, come sintetizza Gragier de Liverdis nel 1660, è affascinato dai palazzi, così fedelmente riprodotti dal Rubens,  [43] poiché servono come modello a tutti gli architetti d’Europa che ne ammirano »la politesse, l’industrie et les belles proportions qu’y sont observées«,  [44] gioielli inseriti nel tessuto urbano della città, armoniosamente rapportati tra l’altezza e la »situation naturalle du lieu« che conferisce all’abitato »un ornement tout à fait avantageux«.  [45] Ciò porta il visitatore, messo di fronte a questi palazzi rutilanti di pitture e di marmi (tutti osservano perlopiù l’esterno), a trascurare sia la Genova medievale ancora viva sul territorio, sia la ricca decorazione interna di quegli edifici tanto ammirati. Tale disattenzione non è invece rivolta ai giardini e alle fontane che diventano specifico punto di interesse. Nel 1672 Alfred Rochefort, proprio alla ricerca di curiosités, afferma che »le fontane di Genova, grazie alla grande quantità d’acqua (forse marina), situate in ogni strada di Genova devono essere il vanto di questa città ancor più dei palazzi di marmo«.  [46] Sia il visitatore francese, sia quello anglosassone in pieno XVII secolo e, in parte, anche nel XVIII sottolineeranno l’ingegnosità costruttiva di questi spazi verdi ripartiti su vari piani, erodendo la collina su cui poggiano i palazzi. Ciò giustificherebbe la disattenzione nei confronti delle collezioni contenute negli stessi: Il visitatore impressionato dall’esterno naturalistico, in qualche modo liberamente accessibile a contrario degli interni, predilige nella sua visita frettolosa annotare qualche appunto nei confronti di quei paradisi dell’Eden che appaiono come vere e proprie copie dei giardini pensili di Semiramide.  [47]

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La disattenzione rivolta agli interni dei palazzi, in favore dei giardini e della decorazione esterna, è altresì favorita dal mito, vivo per tutto il XVII secolo, di ›Genova città di marmo‹. Anche se, in pieno ‘700, l’Abbè Richard, in visita alla città nel 1762, riprenderà la leggenda di Genova »superba di marmi«, già Maximilien Mission nel 1688 riconoscerà che »c’est une chose absolument fausse que Gênes soit bastie de marme«, ammettendo l’esistenza solo di tre o quattro palazzi in Strada Balbi.  [48] È l’inizio del ridimensionamento di un mito.

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In particolare, l’atteggiamento dei visitatori inglesi nei confronti degli esterni dei palazzi sarà assolutamente di fascinazione, anche se non esente da errori. Ad esempio Lady Montagu, con entusiasmo pari quasi alla noncuranza storica, affermerà: »Non basta che io dica che i palazzi, la più parte di essi, sono stati disegnati dal Palladio?«  [49] Tale dichiarazione riporta l’attenzione su una tradizione che nega, o meglio non riconosce la consuetudine che collegava il disegno dei palazzi a Galeazzo Alessi. Il suo nome sarà parzialmente oscurato tra i viaggiatori persino relativamente alla progettazione della Basilica dell’Assunta di Carignano. Il grande protagonista perugino dell’architettura cinquecentesca a Genova verrà riconsegnato ai posteri infatti solo a partire da Carlo Giuseppe Ratti  [50] e successivamente da Federigo Alizeri  [51] .

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Proprio la Basilica dell’Assunta, svettante sulla ripida collina di Carignano, è uno dei maggiori esempi di architettura rinascimentale. Nonostante la sua posizione sopraelevata rispetto al nucleo urbano medievale risulta, comunque, essere nodo principale del percorso cittadino. L’emergenza monumentale viene percepita, anche nelle relazioni in lingua italiana, come un cardine del tessuto urbano per la sua importanza monumentale, tuttavia senza mai metterne in evidenza gli interni. L’anonimo compilatore del manoscritto Descrizione della Liguria e di Genova nel XVIII secolo riporta: »Quest’ultima [la basilica di Carignano] si rende cospicua per la mole della fabbrica, e per l’Architettura, e per l’eccellenza delle pitture, […] per la quantità de marmi, e per le indorature, e pitture […]. […] finalmente pervenni alla collegiata di Carignano fabbricata sul modello della chiesa di San Pietro in Vaticano di Roma, mi furono mostrate delle loro pitture ed altrettanto un Organo che sentii suonare con molto piacere […]. Questa chiesa fabbricata per impegno di Alessandro Sauli cavaliere della prima nobiltà di Genova […].«  [52] La percezione della struttura è legata alla maestosità dell’edificio che, non a caso, è paragonato a San Pietro e al suo rapporto con la produzione di Pietro Bramante. La magnificenza architettonica genovese è presumibilmente causa del disinteresse verso la cultura figurativa; in qualsiasi luogo il visitatore venga condotto, sarà sempre colpito dalla grandiosità degli edifici che tanto si contrappongono alla ristretta spazialità cittadina, trascurando il dettaglio o la ricchezza degli interni.

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Inoltre, è curioso come, pur vicino territorialmente alla basilica dell’Assunta, invece, il complesso di S. Ignazio venisse escluso dal percorso tradizionale con qualche isolata eccezione; venne, per esempio, visitato da Monsignor Agucchi nel XVII secolo, spinto fin là per motivi religiosi e personali: »chiesa posta nella più alta parte della città [...] vi fu invitato da loro per sentire la loro musica, in particolare quella di una monaca figlia del Musico Ferabosco ma soprattutto per vedere il corpo et sito della città medesima ed il teatro della superba valle del Betargo.«  [53] Il convento e la chiesa dei gesuiti vengono altresì messi in evidenza da alcuni anonimi viaggiatori di lingua italiana che, probabilmente spinti dalla curiosità e favoriti da una maggiore dimestichezza linguistica, poterono comprendere dai cittadini che tale zona era degna di essere visitata e descritta.  [54]

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Se sono dunque le architetture i veri e propri oggetti di descrizione da parte dei viaggiatori, il caso di Palazzo Durazzo in Strada Balbi  [55] e della sua collezione costituisce un isolato caso di attenzione e un punto di interesse di viaggiatori. Palazzo Durazzo, visitato da molti forestieri, fu uno degli ultimi grandi esempi di collezionismo su larga scala del patriziato genovese.  [56] Infatti, se per gran parte dell’aristocrazia locale il Settecento fu un periodo di declino, per i Durazzo rappresentò senza dubbio il momento di massima espansione delle attività finanziarie e, di riflesso, del loro mecenatismo. La collezione viene riportata su taccuini e diari di viaggio in maniera assai selettiva e ci permette di comprendere come pochi fossero i nomi, privi però di qualsiasi indicazione specifica relativa alle opere viste, che emergevano come gusto principale del collezionismo e del mercato: Anton Van Dyck, Raffaello, Francesco e Jacopo Bassano e Paolo Veronese – culture pittoriche apparentemente diversissime ma legate da un gusto abbastanza tipico in quel momento.

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Molto importante la più volte citata presenza della Cena in casa di Simone di Paolo Veronese nel palazzo di Eugenio Durazzo, poi Palazzo Reale. La grande tela fu commissionata dai monaci benedettini di Santissimi Nazzaro e Gelso per il refettorio del loro convento a Verona, dove rimase per quasi un secolo, quando, intorno al 1646, i frati stessi la vendettero per 8.000 ducati alla famiglia Spinola di Genova. Nel XVII secolo la tela si trovava presso Palazzo Spinola di San Pietro (attuale Palazzo della Prefettura) anche se nessun viaggiatore ricorda di aver visto l’opera. Più tardi la famiglia Spinola la cedette ai genovesi Durazzo che, nel 1816, la fecero pervenire al re di Sardegna Carlo Felice di Savoia, il cui successore, Carlo Alberto di Savoia (Savoia-Carignano), nel 1837, la faceva trasferire nelle raccolte reali a Torino; attualmente il dipinto fa parte della Galleria Sabauda. Ma è proprio il XVIII il secolo in cui i viaggiatori scrivono profusamente di aver visto la tela. Fra questi spiccano: Charles De Brosses che nel 1739 ci segnala anche la precedente proprietà degli Spinola di San Pietro;  [57] Charles Nicolas Cochin che nell’estate del 1751 riferisce nel suo Voyage d’Italie di aver osservato la preziosa tela e fornisce quello che si ritiene ancora oggi la migliore relazione delle pitture e sculture conservate a Genova e in particolare nel palazzo »contra San Carlo«;  [58] George Romney che nel 1773 identifica la tela, come prima di lui l’aveva segnalata anche Joshua Reynolds  [59] come una »Mary Magdalene washing the feet of Christ«. L’astronomo e redattore dell’Encyclopédie Jerome Lefrançais de Laland, nel 1765, pur concentrandosi maggiormente sulla descrizione architettonica del palazzo, in particolare la terrazza, non può fare a meno di osservare che la tela del Veronese era il capo d’opera dell’intera collezione, così come aveva osservato l’abbé Jérôme Richard nel 1770. L’attenzione nei confronti di Veronese è peculiare poiché i viaggiatori tendono a non specificare i soggetti dei quadri che vedono e ancor più ad attribuirli correttamente al loro autore.

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La visita alla collezione Durazzo Pallavicini (attuale edificio segnalato come Balbi 1, denominazione Palazzo Marcello Durazzo e precedentemente Gio Agostino Balbi) è ricca di indicazioni su quelle che possono, a buon diritto, segnalarsi come assenze o presenze nel gusto dei viaggiatori settecenteschi. In particolare i riferimenti a Raffaello sono indicativi. La maggior parte dei viaggiatori non ricorda la nota Madonna col Bambino, San Giovannino e San Giuseppe, copia della Madonna della Quercia del Sanzio che era presso la collezione, ma talvolta si limita a enunciare, come nel caso di Charles De Brosses, esclusivamente un’altra opera raffaellesca, una Madonna col figlio,  [60] riconducibile alla Vergine col figlio, in realtà copia di Raffaello e che De Brosses, nel 1739, identifica come opera dell’urbinate ancor prima delle Guide locali.  [61] Ma ancor più curioso è la parziale noncuranza nei confronti di alcuni pregevoli quadri della collezione fra cui alcuni Guercino e numerosi Vandyck, talvolta, come nel caso di De Brosses, annotati ma senza riferimenti specifici. Proprio il latinista De Brosses si rivela, fra i molti, il più attento osservatore delle collezioni artistiche. Infatti, è l’unico a segnalare, seppur latamente, alcuni nomi della produzione artistica locale: Gio Lorenzo Bertolotto di cui, presso palazzo Balbi Durazzo, vede alcune Cerimonie turche, più propriamente la rappresentazione del Corteo dell’ambasciata di Giovanni Agostino Durazzo a Costantinopoli,  [62] e il Grechetto del quale vede un »bel paesaggio« (forse un Ingresso di animali nell’arca).  [63]

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La dimenticanza relativa alle principali collezioni genovesi da parte dei viaggiatori è dovuta probabilmente ad una visita frettolosa poiché, come ricordano in molti, raramente le dimore erano aperte al pubblico  [64] o spesso erano prive di servitù che potesse accompagnare gli ospiti  [65] . In particolare presso la collezione Durazzo Pallavicino sia l’archeologo Anne Claude Philippe de Caylus nel 1713/14, sia Charles de Brosses nel 1739 avevano ricordato, non senza errori e omissioni, di aver potuto vedere alcune tele di Van Dyck non specificandone né il numero né il soggetto. I due viaggiatori devono sicuramente aver visto pur non citandone il titolo: il ritratto di Battina Balbi Durazzo Invrea  [66] , questo in realtà identificato da De Brosses come una Durazzo di van Dyck, un Ritratto d’uomo  [67] , Tobia e l’arcangelo Raffaele  [68] e Tre fanciulli con cane  [69] . Ancor più singolare e indicativa di una visita veloce e approssimativa il fatto che nessun viaggiatore indichi fra le meraviglie della collezione Durazzo Pallavicino la splendida Santa Maria Maddalena penitente del Tiziano che faceva parte della collezione sin dal 1724 quando Giacomo Filippo Durazzo (1672-1764) la acquistò tramite Francesco Maria Balbi a Madrid. Tiziano viene ricordato esclusivamente da Thomas Nugent che nel 1749 in visita a Genova ci rammenta di aver potuto vedere alcune tele di Tiziano presso Villa Imperiale Scassi, oggi non rintracciabili.

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In generale, Genova apprezza le forme della grande decorazione barocca e si prepara ad accogliere il più grande esponente di quella cultura, il maestro di Van Dyck, Pietro Paul Rubens. Rubens è affascinato dalla pittura italiana e da quella veneta in particolare, dalla corposità del colore che scopre nel Tintoretto e in Tiziano; si spiega dunque anche un certo interesse verso il tizianesco Bassano e la presenza fondamentale di Veronese, che peraltro influenzerà la sua predilezione per il colorismo. Rubens diventa così una sorta di ponte tra la pittura fiamminga e la cultura pittorica italiana. I grandi pittori italiani lasceranno una grande impronta anche nel giovane Van Dyck quando, nel 1621, arriverà in Italia per un soggiorno che durerà circa sei anni e che vedrà nella tappa genovese uno dei suoi periodi artistici più fiorenti. Rubens verrà inoltre spesso considerato nei vari percorsi cittadini. Sempre citato nelle collezioni private e ricordato erroneamente da Thomas Nugent e Charles De Brosses per una inesistente pala nella chiesa della Annunziata del Vastato, curiosamente viene omesso, ad eccezione di Romney che latamente lo cita, per le grandiose tele della chiesa di sant’Ambrogio, La circoncisione e Il miracolo di San Ignazio che guarisce un’ossessa. In quella chiesa l’opera più ricordata dai viaggiatori, in particolare dal pittore del Lake District, sarà invece l’Assunta, di Guido Reni, forse perché di matrice più classicista. Rubens è il pittore che ha fatto conoscere Genova all’Europa individuando e, in parte imponendo, oltre che un percorso preferenziale di visita come i palazzi di Strada Nuova, anche un’identità di gusto, legata alla fortuna del collezionismo e del mercato, dovuta a una sua indiscussa autorevolezza presso la connaisseurship forestiera.  [70]

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Il visitatore è maggiormente interessato a descrivere la Genova città di palazzi, preferendola alle ricche collezioni che vengono analizzate solo in parte. Un caso eclatante è la scarsa considerazione, presso i viaggiatori del Settecento, della ricca collezione di Anton Giulio Brignole Sale  [71] in Strada Nuova così come la mancata segnalazione delle superbe sale affrescate da Domenico Piola e Gregorio De Ferrari. Ma in sintonia con le tendenze di mercato dal secondo Seicento in poi i viaggiatori anticipano le ragioni di un discreto flusso e relativa dispersione di opere artistiche genovesi verso la Gran Bretagna; su questo molto celano ancora The National Archives a Londra che, come riferisce Edoardo Grendi,  [72] conservano originali e mai indagati documenti relativi al traffico commerciale di opere d’arte fra Genova e l’Inghilterra nei secoli XVII-XIX. Viaggiatori inglesi disattenti e mercanti e intermediari curiosi erano, in parte, scontenti delle offerte della pittura genovese, per buona parte avara di grandi novità, chiusa nel recondito delle grandi collezioni private conservate in palazzi che erano raramente aperti al pubblico e privi di servitù che potesse fornire indicazioni.  [73] Ciò portò il viaggiatore, in qualche modo sfavorito anche da una difficoltà linguistica, a non accedere anche a palazzi che in realtà erano da sempre aperti al pubblico come Palazzo Gentile presso Piazza Spinola di Pellicceria. Egualmente dimenticato appare anche Palazzo Spinola di Pellicceria. Inoltre, anche quando gli intermediari e i mercanti potevano accedere, con difficoltà, alle collezioni, la richiesta era comunque molto esosa nel prezzo. Così ci descrivono la Genova dei pittori e dei quadri d’autore le belle lettere del pittore Marcantonio Franceschini al suo committente Adamo di Liechtenstein, scritte fra il 1702 e il 1704 mentre si dedicava alla decorazione della Sala del Gran Consiglio del Palazzo genovese dei Dogi. Franceschini prima riferisce di essere disponibile a perlustrare il territorio per eventuali acquisizioni: »anche in Genova […] havrò sempre particolar ambizione di potermi impiegare per i di lei stimatissimi comandamenti«,  [74] ma poi, con chiarezza, dichiara al suo committente la difficoltà di comprare buone opere e soprattutto, come raccontato più volte da molti viaggiatori, di potervi accedere: »In ordine poi a ciò si compiacque V.A.S. comandarmi per vigilare, se in Genova fosser stati quadri di […] da vendere, si assicuri che non ho mancato d’ogni dovuta diligenza, ma non m’è riuscito trovarne, mentre i migliori sono in mani di chi non vuol vendere, e se alcuno si riduce a dir di farlo, dimandano prezzi così alterati, che non v’è luogo per trattare.«  [75]

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In ultima analisi, l’attenzione dei viaggiatori è rivolta al cannocchiale prospettico di Strada Balbi che diventa vero e proprio nodo cittadino che tende a escludere quella parte della città non compresa fra Piazza della Annunziata e San Pier D’Arena, seppur con alcune eccezioni, e la zona antistante il porto, analizzata nella sua funzione commerciale quale centro di potere politico ed economico. In particolare, il Palazzo San Giorgio, nella zona della Ripa Maris viene sempre citato, specificamente dagli anglosassoni, come il Banco di S. Giorgio prima banca europea e non come emergenza storico artistica. Tale riferimento non può stupire poiché quando verso la fine del XVII secolo in Inghilterra iniziano a essere fondate le principali banche del paese,  [76] la visita a Genova risulta, in parte, veicolata da un interesse più propriamente economico piuttosto che culturale, in piena corrispondenza con la sensibilità della classe dirigente genovese che riteneva la produzione artistica secondaria agli interessi finanziari e, qualora vi fosse, esclusiva rappresentazione di un raggiunto potere politico.

 

Profilo d’autore

Dottore di ricerca in Storia della critica d’arte presso l’Università degli Studi di Genova, relatore a vari convegni internazionali e vincitore di alcune borse di ricerca (Romney Society Bursary, Fondazione Cini), ha al suo attivo numerosi articoli scientifici relativi alla letteratura artistica fra XVII e XIX secolo, con particolare attenzione alla letteratura odeporica e ai rapporti artistici fra Liguria e Regno Unito nel XVII e XVIII secolo.

Email: giulia.savio@unige.it

 



[1] Maurizia Migliorini e Alfonso Assini: Pittori in tribunale, Nuoro 2000, p. 70; Maurizia Migliorini: Il viaggio dei pittori nel Sei- e Settecento e lo studio dei grandi maestri, in: Souvenir d'Italie. Il viaggio in Italia nelle memorie scritte e figurative tra XVI e XIX secolo, atti del convegno, a cura di Maurizia Migliorini e Giulia Savio, Genova 2009, p. 69-94.

[2] Francis Haskell: Riscoperte nell’arte: aspetti del gusto, della moda e del collezionismo, Milano 1982, applicava i concetti di gusto, moda e mercato, peraltro con una mal celata perplessità nei confronti di quest’ultimo e degli interessi di ordine finanziario, per spiegare l’evolversi degli orientamenti assunti dal collezionismo pittorico in un arco di tempo a ridosso della fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX. Lo studioso britannico aggiungeva che »stentiamo ancora ad accettare il fatto che perfino nello spazio temporale di un singolo istante può avvenire che i gusti differiscano«; si veda anche il fondamentale Francis Haskell: Mecenati e pittori. Studio sui rapporti tra arte e società italiana nell'età barocca, Firenze 1966.

[3] Sull’argomento si veda Giulia De Marchi: Mostre di quadri a S. Salvatore in Lauro (1682-1725): stime di collezioni romane, Roma 1987.

[4] Saggi cronologici, o sia Genova nelle sue antichità ricercata. Nuovamente ristampati coll’aggiunta di moltissime notizie, Genova 1743. Si veda per completezza sull’argomento Maurizia Migliorini: Divulgazione e conoscenza della città di Genova dai Saggi cronologici alle edizioni della Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova di Carlo Giuseppe Ratti, in: Guide e viaggiatori tra Marche e Liguria dal Sei- all'Ottocento, atti del convegno, a cura di Giovanna Perini, Urbino 2006, p. 225-242, e Maurizia Migliorini: Tra saggi cronologici e guide per la città di Genova: un manoscritto inedito del 1742, in: Studi di Storia delle Arti. Numero speciale in onore di Ezia Gavazza, a cura di D.I.R.A.S., Genova 2003, pp. 169-177.

[5] Le vite de pittori, scoltori et architetti genovesi; e de' forestieri che in Genova operarono; con alcuni ritratti de gli stessi opera posthuma dell'Illustre Signor Rafaele Soprani. Aggiontavi la vita dell'autore, per opera di Gio. Nicolò Cavana, Genova 1674. Si ricorda, in questa sede, che è attualmente in corso di stampa, ad opera di Maurizia Migliorini, la riedizione con nota critica del testo.

[6] La produzione del Ratti è presente sia presso la British Library con acquisizione del 1890 sia in altre biblioteche anglosassoni e francesi.

[7] Cesare Ratti: Guida illustrata della Valle d’Aosta, Torino 1890, e Cesare Ratti: Alcuni giorni in Torino. Guida descrittiva, Torino 1885.

[8] Luigi Lanzi: Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII secolo, vol. II, Bassano 1795; la parte genovese è reperibile al link:
http://www.memofonte.it/home/files/pdf/lanzi_storia_pitt1795_vol2ii.pdf.

[9] Giusta Nicco Fasola: Luigi Lanzi, C. Giuseppe Ratti e la pittura genovese, in: Miscellanea di storia ligure in onore di Giorgio Falco, Milano 1962, pp. 357-408.

[10] Ezia Gavazza: Il Palazzo Durazzo Pallavicini, Firenze/Bologna 1995, e segnatamente p. 338.

[11] Description de Beautés de Gênes, Genova 1788, p. 56.

[12] Charles De Brosses: Lettres historiques et critiques sur l'Italie. L'Italie il y a cent ans, ou Lettres ecrites d'Italie à quelques amis en 1739-1740, Parigi 1836. Ed. cons.: Viaggio in Italia. Lettere familiari, Roma/Bari 1973, pp. 70-72.

[13] Sull’argomento si veda Migliorini e Assini 2000 (come nota 1), p. 55-61.

[14] Sulla fortuna critica della corrente manierista si vedano Renato Barilli: Maniera moderna e Manierismo, Milano 2004; Antonio Pinelli: La bella maniera, Torino 1993; e Antonio Pinelli: Arte, istruzioni per l’uso, Bari 2009, in particolare il cap. 7.

[15] Sull’argomento risultano ancora validi i seguenti contributi: Max Dvořák: Über Greco und den Manierismus, Monaco 1922, pp. 261-276; Giuliano Briganti: La Maniera italiana, Roma 1961; Acts of the 20th International Congress of the History of Art, New York 1961, vol. 2: The Renaissance and Mannerism. Studies in Western Art, Princeton 1963, pp. 163-255.

[16] Si vedano i noti contributi di Elena Parma, in particolare il recente e ricapitolativo: Perino del Vaga: prima, durante, dopo, atti delle Giornate internazionali di studio, Genova, Palazzo Doria »del Principe«, 26-27 maggio 2001, Genova 2004, con bibliografia precedente.

[17] Balthasar Moconys: Journal des voyages, Lyon 1647, p. 32.

[18] De Rogissart: Le délices de l’Italie, Leiden 1706, p. 12.

[19] Giovanni Battista Agucchi: Diario del viaggio del Card. Pietro Aldobrandino nell'andar Legato Apost.co a Firenze per il sposalitio della regina di Francia e doppo in Francia per la pace. Descritto da Mons. Agucchia morto in Venetia Nuntio Apostolico, 1601, Archivio storico del Comune di Genova, ms. 4112.

[20] Su Bergeret a Genova si veda Letizia Norci Cagiano: Lo specchio del viaggiatore. Scenari italiani tra Barocco e Romanticismo, Roma 1992. Le descrizioni del Bergeret sono puntuali e attenti a mostrare la stretta corrispondenza spaziale fra interni ed esterni che viene abilmente rappresentata anche dal compagno di viaggio Fragonard nei disegni conservati al Louvre (palazzo Doria Fassolo) e al British Museum (palazzo Filippo Durazzo).

[21] Bergeret e Fragonard: Journal inedit d’un voyage en Italie 1773, a cura di M. A. Tonezy, Paris 1845, p. 111 e 112.

[22] Fynes Moryson: An Itinerary Written by Fynes Moryson Gent, First in the Latine Tongue, and Then Translated by Him into English, Containing His Ten Yeeres Trauell through the Twelve Dominions of […], London 1617, p. 358.

[23] Nulla si dice relativamente alla voliera negli studi relativi al giardino del palazzo.

[24] Francis Mortoft: His book, a cura di M. Letts, London 1925, p. 41.

[25] Richard Lassels: A voyage, Ginevra 1985, p. 85.

[26] Lauro Magnani: Storia di un giardino in Palazzo del Principe. Genesi e trasformazioni della villa di Andrea Doria a Genova, in: Ricerche di storia dell’arte 8, 2004, p. 82-83.

[27] Cfr. nota 28.

[28] Romney, in un primo momento, si differenzia poiché in particolare, come già avevano osservato gli studiosi H. Ward e W. Roberts, Romney non parla con entusiasmo di Van Dyck del quale già aveva potuto vedere opere migliori in Inghilterra; l’opinione varia solamente in riferimento a due quadri: il ritratto equestre di un giovane marchese individuato nella figura di Anton Giulio Brignole Sale a cavallo del 1627 e il ritratto, a figura intera, della moglie, Paolina Adorno Brignole Sale. Humphry Ward and William Roberts: Romney. A Biographical and Critical Essay with a Catalogue Raisonné of his Works, vol. 1, London 1904, p. 35. Vedi anche Piero Boccardo e Clario Di Fabio: Van Dyck a Genova. Grande pittura e collezionismo, Milano 1997, p. 294. Vedi anche Susan J. Barnes: Van Dyck, a complete catalogue, Yale 2004.

[29] Maurizio Marini: Caravaggio a Genova in: Bollettino dei musei civici genovesi 3, 1979, pp. 28-41; Piero Boccardo: L'eco caravaggesca a Genova: la presenza di Caravaggio e dei suoi seguaci e i riflessi sulla pittura genovese, in: Caravaggio e l'Europa: il movimento caravaggesco internazionale da Caravaggio a Mattia Preti, Milano 2005, pp. 103-115.

[30] Silvia Danesi Squarzina: Caravaggio e i Giustiniani: toccar con mano una collezione del Seicento, Milano 2001; R. Engass: L' amore Giustiniani del Caravaggio: le virtù di un vero nobile, in: Palatino 1, 1967, pp. 13-20.

[31] Talman è l’unico a discostarsi dalla consuetudine, infatti, del 1714 è il disegno del pulpito di San Siro, realizzato su commissione del padre teatino Agostino Pallavicini. Il disegno si conserva a Londra, nel Victoria and Albert Museum (92 D 60b, E.290-1940). Da sottolineare che anche qui come a Napoli Talman, unico nel contesto settecentesco, non manca di documentare chiese dei teatini, facendo con ciò intuire un rapporto privilegiato con quest'ordine regolare, figlio della riforma cattolica.

[32] Carlo Giuseppe Ratti: Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura et architettura, autore Carlo Giuseppe Ratti pittor genovese, Genova 1766, pp. 144-149.

[33] De Brosses 1973 (come nota 12), p. 78.

[34] De Brosses 1973 (come nota 12), p. 82. Sull’argomento molto è stato scritto, in particolare si vedano i contributi di Lauro Magnani: Il giardino, spazio di realtà e spazio di illusione, in: Ezia Gavazza e Giovanna Rotondi Terminiello: Genova nell'età barocca, Bologna 1992, p. 29-31, e in particolare Idea di giardino: studi e ipotesi sul giardino genovese tra immaginazione artistica e documento, in: Arte dei giardini 1, 1991, p. 44-64.

[35] Charles Dupaty: Lettere sull'Italia nel 1785. Da Genova a Firenze, a cura di Davide Arecco, introduzione di Carlo Bitossi, Novi Ligure 2006, pp. 23-24.

[36] Fra i contributi più significativi che riportano alcune indicazioni sulla fortuna critica del luogo da parte dei viaggiatori si vedano Clario Di Fabio: San Lorenzo, in: Medioevo restaurato, Genova 1860-1940", Genova 1984, pp. 193-248; Franco R. Pesenti: Cattedrale di S. Lorenzo, Genova 1976 (Guide Sagep, num. 11); Tomaso Negrotto: Notizie storiche della chiesa metropolitana di S. Lorenzo descritte da T. N. canonico di essa, l'anno 1796, Archivio storico del Comune di Genova, ms. 552, di oltre 700 pagine con trascrizione di documenti storici e di epigrafi; Mario Labò: Galeazzo Alessi e il Duomo di Genova, in: Il Marzocco 28, 1932, no. 2, p. 3 e seg. con bibliografie relative.

[37] Clario di Fabio 1984 (come in nota 36), pp. 193-248.

[38] Per alcune informazioni sulla struttura si veda il contributo di N. De Mari: La chiesa delle Scuole Pie a Genova e il ruolo dei Padri Scolopi nella diffusione in Liguria di un impianto barocco di matrice lombarda, in: Palladio 1, 1988, pp. 135-146.

[39] Distinta relazione del viaggio di S.M.C. l'Imperatrice Regina di Spagna, Cristina Elisabetta, 1713; conservato presso il Getty Library, n. inventario 325149.

[40] G. Parry: The John Talman Letter-Book, in: The Walpole Society 59, 1997, pp. 3-179, particolarmente pp. 168-169. Il disegno delle insegne delle confraternite genovesi è conservato al Victoria and Albert Museum (92 D 60, E.178-1940). Si ringrazia Antonella Capitanio da cui evinco queste notizie.

[41] La maggior parte dei visitatori non ricorda neppure la cappella di San Giovanni, patrono della città, che conservava sculture di Domenico Gaggini (fronte sulla navata, parte dei pinnacoli in alto, XV secolo); a scopo informativo si ricorda che la cappella fu in seguito decorata da Matteo Civitali da Lucca (1492) e da Andrea Sansovino che fu autore delle statue nelle nicchie (la Vergine, San Giovanni Battista, del 1504 ca.).

[42] In particolare il contributo: L’arte e la ritualità del cattolicesimo nello sguardo di John Talman, viaggiatore inglese in sosta a Genova e Napoli (1710-1714), in: Colombo e il viaggio, a cura di Michele Marsonet, Genova, in corso di stampa; ringrazio il docente per aver potuto consultare il suo materiale.

[43] Pietro P. Rubens: Palazzi di Genova, ed. Milano 2006.

[44] B. G. de Liverdis: Journal d’un voyage de France et d’Italie, Paris 1667, p. 157.

[45] Ibidem.

[46] J. De Rochefort: Le voyageur d’Europe, Paris 1672, p. 364.

[47] Maximilien Misson: Nouveau voyage d’Italie, fait l’anée 1688, La Haye 1691, p. 38.

[48] Misson 1691 (come in nota 47), p. 37.

[49] Mary Montagu: Letters and Works, London 1837, p. 387.

[50] Carlo Giuseppe Ratti: Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura ed architettura, ristampa dell'edizione di Genova 1780, Sala Bolognese 1976, p. 84: »S. Maria, e SS. Fabiano, e Sebastiano, principiato il dì 10 di Marzo dell'anno 1552 per disposizione fatta sino dal 1481 dal fu Bendiniello Sauli. Nel 1683 poi da Gregorio XIII fu eretto in Collegiata, nelò 1690 fu l'Abate di essa decorato della Mitra, e Pastorale da Alessandro Papa VIII, nel 1705. Clemente XI, diede a' Canonici l'abito, che portano di presente, e per ultimo la santa memoria di Benedetto XIV nel 1742 concedè, che servisse di Parrocchia a' nobili Sauli discendenti dal Fondatore, e Ministri di essa, e loro Servitori. Di si bell'edifizio deesi la gloria a Galeazzo Alessi celebre Architetto, essendo ogni parte costrutta con disegno, e modello di lui.«

[51] Si veda in particolare Federigo Alizeri: Guida artistica della città di Genova, Genova 1848, p. 303-304.

[52] Descrizione della Liguria e di Genova [XVIII secolo], in: Biblioteca Universitaria di Genova, Fondo Manoscritti, Ms. B.II.24, c. 34.

[53] Ibidem, c. 90.

[54] Si fa riferimento a anonimi viaggiatori di lingua italiana, i cui taccuini sono conservati presso la Civica Biblioteca Berio di Genova. Per riferimenti bibliografici si veda Giulia Savio: Genova e le sue emergenze monumentali e storico-artistiche attraverso le guide e la letteratura di viaggio, tesi di dottorato, discussa presso l’Università degli Studi di Genova il 30 marzo 2010.

[55] Attuale edificio in Via Balbi 10.

[56] Per una breve storia della Galleria Durazzo, vedi il saggio di Luca Leoncini: Ascesa e caduta della quadreria dei Durazzo di Palazzo Reale, in: Da Tintoretto a Rubens – Capolavori della Collezione Durazzo, Genova/Milano 2004, pp. 41-73. Sulla storia della famiglia vedi anche, oltre a Antonio Scorza: Le famiglie nobili genovesi [1924], Genova 2003, pp. 83-84, anche la recente monografia di Antonella Valenti Durazzo: I Durazzo – Da schiavi a Dogi della Repubblica di Genova, Brescia 2004. Sul palazzo vedi Luca Leoncini: Palazzo Balbi Durazzo Reale. Note per la storia di un museo, in: Palazzo Reale di Genova – Studi e restauri 1993-1994, Genova 1997, pp. 43-64, ed Idem: Palazzo Reale Balbi Durazzo, Genova 2005.

[57] Vedi anche Migliorini e Assini 2000 (come in nota 1), p. 66.

[58] Sulla visita genovese di Cochin, non trattata nel corso di questo lavoro, molto è stato già scritto. È utile comunque ricordare che Cochin risiedette a Genova ospite del marchese Giacomo Balbi nell’edificio eretto da Francesco Maria. Si diletta a giudicare stilisticamente molte opere pittoriche visionate. I suoi commenti saranno aspramente criticati dal Ratti che li riterrà giudizi sempre all’opposto della verità. Si veda in particolare il contributo di Leoncini 2004 (come in nota 56), p. 62-63.

[59] Sir Joshua Reynolds aveva identificato nella stessa collezione anche »a most admirable portrait of a man by Rembrandt«, mai citato da nessun altro viaggiatore. Certamente si tratta del »ritratto con turbante del Rembrandt« che Ratti cita, trent'anni dopo, come sopraporta nell'ultimo salotto. Il Rembrandt (che in realtà è opera di bottega) è rintracciabile e visibile nella Galleria Sabauda di Torino, ove giunse, assieme al Veronese, dopo la trasformazione di Palazzo Durazzo in residenza sabauda (Palazzo Reale).

[60] Vedi anche Gavazza 1995 (come in nota 10) e segnatamente p. 334 e 338.

[61] Il primo riferimento è in Description de Beautés de Gênes, Genova 1788, p. 56, vedi anche la scheda di Giovanna Rotondi Terminiello in: Gavazza 1995 (come in nota 10), p. 338.

[62] Si tratta di due tele di Giovanni Lorenzo Bertolotto relative a tale soggetto; si vedano le schede specifiche in: Galleria di Palazzo Reale, Milano 2009, p. 128, 248.

[63] Ibidem, pp. 92-100.

[64] Giovanna Perini (Sir Joshua Reynolds a Genova, in: Colombo e il viaggio, a cura di Michele Marsonet, Genova, in corso di stampa) sostiene invece che le dimore fossero aperte e facilmente penetrabili. A mio avviso invece la facilità di accesso fosse riservata esclusivamente a pochi (fra cui spicca Cochin) e che soprattutto la celeberrima tirchieria genovese facesse sì che ad accogliere i visitatori non vi fosse nessun domestico.

[65] Montesquieu infatti, con consueto fare caustico, sentenzia: »Se nelle case più illustri vedete un paggio, è perché non ci sono domestici.« Lettera su Genova, da Charles L. Montesquieu: Voyages, 1846, tratto da Addio a Genova, a cura di a tradotto da Pier Luigi Pinelli, Genova 1993. E anche il tedesco Karl Ludwig Pöllnitz afferma: »there are no Domestics, and sometimes it is a difficult Matter to find the Master of the House.« Karl Ludwig Pöllnitz (Freiherr von): The Memoirs of Charles-Lewis, Baron De Pollnitz, Being the Observations he Made in his Late Travels from Prussia through Germany, Italy, France, Flanders, Holland, England, 2 vol., London 1739, p. 123.

[66] Gavazza 1995 (come in nota 10), e segnatamente p. 123.

[67] Ibidem, p. 114.

[68] Ibidem, p. 235.

[69] Ibidem, p. 242.

[70] Si veda a questo proposito Piero Boccardo: L'età di Rubens: dimore, committenti e collezionisti genovesi, Genova/Milano 2004.

[71] Si tratta della collezione di Palazzo Rosso; si vedano Piero Boccardo e Laura Tagliaferro: La Galleria di Palazzo Rosso, Milano 1992, e Direzione Ufficio Belle Arti: Catalogo provvisorio della Galleria di Palazzo Rosso, Genova 1971.

[72] Edoardo Grendi: Fonti inglesi per la storia genovese, in: Atti della Società Ligure di Storia Patria 36,2, 1996 (Studi e Documenti di Storia Ligure in onore di don Luigi Alfonso per il suo 85° genetliaco), pp. 349-374.

[73] Vedi nota 64.

[74] Dwight C. Miller: Marcantonio Franceschini and the Liechtensteins, Cambridge 1991, p. 255 (lettera 110, spedita da Bologna, Marzo 7, 1702).

[75] Ibidem, p. 256 (lettera 111, spedita da Genova, Marzo 7, 1704).

[76] Ad esempio, la Bank of England venne fondata nel 1694.

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Empfohlene Zitierweise

Savio G.: La percezione della cultura figurativa di Genova nei viaggiatori del XVIII secolo: persistenze e assenze. In: Kunstgeschichte. Texte zur Diskussion, 2010-9 (urn:nbn:de:0009-23-25215).  

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